“Ich bin Claudio für
alle. Kein Titel”. In traduzione libera: “diamoci tutti del tu”. Potrebbe
essere l’intestazione di questa spessa e sgargiante cartolina-passeggiata
fotografica, sillabata con amorosa scienza e rara dovizia documentaria. Il
percorso per immagini spariglia ciò che Claudio (Abbado) sembra e fa, da ciò
che Claudio è, e gli amici veri lo sanno. La diversità si delinea nelle parole,
a loro modo storiche, richiamate in apertura; quelle con cui si presentò ai
Berliner Philharmoniker nel dicembre 1989 per la prima prova da neo-direttore
musicale. Ma la distinzione è, anzitutto, di sostanza: sta nel modo di far
musica sempre “con” gli altri (musicisti e non), non “al di sopra”, o senza
tenerne conto. Nella volontà di rovesciare l’aneddotica ordinaria che associa
il ruolo del direttore d’orchestra a una forma impositiva, dittatoriale o
comunque militaresca; un’idea, alimentata dall’esibizionismo di altri tecnici
del podio, da esegeti e agiografi senza pudore, da improvvisati storici della
musica o dalla piaggeria dei cronisti.
Certamente in questa labirintica galleria, anche il
condottiero di musicisti (come suona la traduzione del sostantivo direttore in
altre lingue) viene fuori. Ma quasi contro voglia. Perché la scelta più
generale, e filosofica, della monumentale cartolina illustrata si concentra su
ciò che conta veramente. L’augurio fotografico dei “caini”, il gruppo di sostenitori uniti sotto la sigla Cai, amici
per passione e professione, da anni itineranti per necessità e cupidigia di
emozioni, restituisce l’eco d’una pratica musicale e interpretativa che Claudio
ha esercitato a sua volta attraverso complicità e amicizie.
Non c’è bisogno di parole: basta farsi guidare
dall’impaginazione. Gli oltre cinquecento fotogrammi sono una partitura
sincera. Fascicolati all’incirca per decenni propongono un inevitabile
raddoppio a metà degli anni Ottanta: l’avvicendamento Milano-Vienna,
conclusione dell’itinerario di magnifica formazione artistica che si riassume
nella presenza intrecciata didattico-artistico-progettuale nelle sue due città,
meritava una duplice riflessione. Gli appassionati del Cai che hanno
selezionato le migliaia di immagini, una volta assegnata fiducia piena a chi
aveva il dovere di verificarne la congruenza tecnica, hanno scritto una storia
musicale e direttoriale affettivamente faziosa e dimostrativa. Basta ‘leggerle’
bene per rendersi conto che le fotografie ammesse e impaginate sono quasi
sempre attente a fissare l’attimo che segue (o precede immediatamente) l’atto
del comando: al gesto direttoriale in azione è anteposto il ricordo del
coinvolgimento che suscita. A quello fugace e irripetibile dell’esecuzione lo
spunto tratto dal processo reiterato e metodico, paziente e privo di urgenza,
della prova. E ancora oltre. Troviamo il ritratto di scambi umani rubati all’intervallo
tra una seduta di lavoro e l’altra, di raccomandazioni o riflessione
estemporanee nate nel momento in cui era indispensabile ricontrollare la musica
sulla partitura o nel meraviglioso istante in cui emozioni, tensioni e fatiche
si confondono e sciolgono per il rituale dei ringraziamenti. Spesso non vediamo
gli applausi ma l’effetto su chi li riceve. Sorrisi ripetuti centinaia di
volte, diversi, vibranti e propositivi. Euforici scatti d’orgoglio collettivo
non protocollo di vanità individuale: come enfatizza, ma con semplicità, il
celebre scorcio di Roberto (Masotti) che fissa il profilo timidamente
affacciato di Claudio tra i lembi del sipario scaligero.
Ovvio che un libro di fotografie non si legge: si annusa, si
sfoglia a caso, poi in ordine. Qui si deve partire dal fondo per la cronologia
naturale; dall’inizio se si cercano i ricordi più freschi e tutti a colori. La
prima sezione è preludiata dalle minute
già risonanti dell’ultimo progetto creato da Renzo (Piano) con-e-per Claudio a
Bologna. Si apre poi con un’immagine che sintetizza a perfezione il lavoro
direttoriale di Claudio, e si chiude zoomando sui fiori che ammiccano dal
palcoscenico del Comunale di Ferrara. Entrambe si devono alla rapidità di
scatto di Marco (Caselli Nirman), altro storico amico-fotografo. L’ultima è da
cortocircuito affettivo per il drappello più tenace di ammiratori-ideatori del
Cai: molti di loro riconosceranno adagiato sull’impiantito ferrarese lo stelo
che hanno religiosamente (e furtivamente) tenuto in mano o nella borsa per tutto
il concerto, prima di lanciarlo dall’alto. La prima fotografia si può invece leggerla come un quadro: a cogliere
dietro gesti e proporzioni, i colori e i profili, l’anima, il corpo e il mondo
del soggetto. I particolari esprimono con chiarezza. Il braccio è testo come in
un ordine ma nello stesso tempo morbidamente arcuato come per una richiesta
gentile. Le maniche della camicia arrotolate sotto i gomiti, viste tante volte,
sono una precisa spia del modo amicale e reciprocamente alla mano di concepire
il lavoro insieme sulla musica. La bacchetta è a riposo ma l’indice non lascia
dubbi sul destinatario della richiesta o dell’osservazione. Con Claudio non
sono previste deroghe né abbuoni sulla qualità e il dispendio di poesia; lo
sanno bene i suoi amici-strumentisti. Sulle scelte musicali è possibile - anzi
auspicabile - discutere a lungo ma la sintesi definitiva, condensata in quella
tensione della mano, spetta a lui. Non perché la decisione sia sua, ma perché
così è stato concertato insieme: qualcuno se n’è dimenticato, tranne lui.
Infatti lo ricorda: fissando il ‘colpevole’ con l’occhiata severa che sbuca
sopra il braccio ma non dissimula l’espressione complice, vagamente scherzosa.
Ognuno è autorizzato a dedicarsi in modo individuale
all’esercizio (gioco?) di interpretare le immagini. In alcuni casi è meglio
contestualizzarle negli anni e nei luoghi. Altre volte dicono tutto da sole
anche se non sono astratte ma vibranti come quella d’avvio. Riguardiamo le
sequenze in bianco-e-nero delle prove del primo concerto alla Scala o
dell’esordio della Filarmonica milanese - con la formazione in primo piano
della Terza di Mahler: Giulio
(Franzetti), Romano (Gandolfi), Claudio, Lucia (Valentini Terrani), Rocco
(Filippini) - oppure, all’indietro,
alla stinta inquadratura dell’umile tavolato dell’Angelicum dove dirige, poco
più che ventenne, la Kammermusik op.24 di Hindemith, a quelle (recenti)
all’Aquila o (storiche) tra i colonnati dell’Innocenti o della Breda, nel verde
della Waldbühne fino alle distese di teste dei vari
palasport che hanno sussultato col galoppo dei Cavalieri teutoni sul lago
Peipus ghiacciato: le date (ri)acquistano vita e significati. In profondità e
automaticamente.
Il voluminoso augurio fotografico schiude emozioni forti: la
molteplicità di sguardi e di amici che hanno costellato il cammino artistico di
Claudio. Sono loro i veri protagonisti. Ed è bello che siano gli amici del Cai,
istituzionali dal 1995, a
riunire nell’augurio collettivo gli amici d’una vita. L’antologia ha una linea
espressiva naturale e un obiettivo: schivare agiografia e prevedibilità,
creando un itinerario che - a parte le inevitabili ‘totali’, liturgiche
inquadrature degli spettacoli d’opera, però quasi sempre costrette e quasi
intorpidite in sequenze paracinematografiche - riporti la documentazione
fotografica alla dimensione più segreta e protetta di Claudio. Il profilo amato
ma devotamente rispettato dai praticanti del Cai che dagli anni Ottanta hanno
fatto di Claudio il proprio incondizionato riferimento culturale e artistico,
umano e affettivo.
Nelle immagini selezionate ci sono pochi primi piani (se non
firmati o curiosi, come quelli che ci regalano un ricordo del giovane talento
col viso barbuto) ma infiniti piani americani o piani medi, foto di gruppo
anzi, d’assieme, con musica o in conversazione non strumentale: in operoso
silenzio. A decine i dialoghi senza parole, ma con gesti espliciti, le musiche
in mano o sul leggio, tra Claudio e Maurizio (Pollini), tra Claudio e Martha
(Argerich). Ma basta la toccante inquadratura dall’alto di Claudio e Gigi
(Luigi Nono) che spalla a spalla, sdraiati per terra sul ripiano centrale
dell’arca creata da Renzo e mirabilmente incagliata tra le navate veneziane
della chiesa dei S.S. Giovanni e Paolo, tagliano e correggono a matita grossa
la partitura di Prometeo, per evocare
cento storie musicale di cui siamo in debito con questi protagonisti. Le loro
voci si sentono. Le ascoltiamo come escono dai fastelli di immagini collettive
ravvicinate, dagli scatti che talvolta ancorano momenti irrituali e
cristallizzano dettagli esecutivi sottili: la bacchetta di Claudio che incrocia
come in un confronto di fioretti l’archetto di Giuliano (Carmignola), la bocca
aperta che risulta perfettamente complementare e geometricamente simmetrica a
quella di Waltraud (Meier) che canta, l’occhio siculo rapace che
intercetta quello d’uno strumentista per
ottenere un’intesa vitale. Anche lontane dal rito esecutivo o concertistico, le
fotografie parlano di musica. I numerosissimi ‘duetti’ snocciolano incontri
fondamentali dell’amico direttore e una porzione unica di storia
dell’interpretazione: oltre sessant’anni di musica e di vita. Per Claudio e per
tutti noi.
Due comportamenti si ripetono. Claudio ride (o fa ridere), e
ascolta. C’è un’allegria diffusa e leggera nel vivere nella musica che Claudio
chiede e restituisce con evidente spensieratezza (del resto lo fa anche in
esecuzione). I toni sono diversi ma lo spirito è identico: è la risata
inevitabile di fronte alle burattinate di Roberto (Benigni), è la scoperta
d’una complicità giovanile contagiosa col 23enne Daniel (Harding, che ne
dimostra meno) o d’una complicità antica ma avviata da giovani col 70enne
Daniel (Barenboim), è l’ironia scambiata con Luca (Ronconi) o l’arguzia acida
condivisa con Jean-Pierre (Ponnelle), l’amicizia storica con Zubin (Mehta). Ma
c’è anche la giocondità aperta professata tra i leggii: lo scoppio d’ilarità
improvviso, la sorridente stupefazione (l’espressione a metà tra il divertito e lo
stupito è un’esclusiva, forse anche un modo di nascondersi, di Claudio), la
partecipazione allo scherzo collettivo. La sensazione più diffusa è che in quei
momenti ci sia una condivisione di umori, oltre che di pensieri e di
intelligenze musicali che solo pochi direttori riescono a creare, allenare e
fortificare senza ricorrere a strumenti di forzata persuasione.
Del resto, come ricorda la carrellata di fotografie e i
fascicoli (rilegati a mano) di questo volume-album, Claudio è (stato) l’uomo
delle orchestre (e dei teatri) fatte crescere con-e-per il pubblico, dei
complessi, soprattutto giovanili, creati dal nulla. Sono sei. Li (ri)conosciamo
tutti nella sequenza: decennio dopo decennio fino alla Mozart e alla Lucerne
Festival Orchestra che si contendono gli affetti musicali più recenti. Ma non
si perde l’eco amoroso delle centinaia di amici-musicisti attratti in tanti
anni dalla fiducia totale nel Zusammenmusizieren (far musica insieme). E
il gesto di fondare un’orchestra, assumendosi le responsabilità di svezzamento
e patrocinio artistico, non è solo simbolico: è il segno inequivocabile del
carisma di Claudio e della caparbia volontà di far musica nei luoghi e con le
persone con le quali si può (e si deve, se si ha l’umiltà saggia per farlo)
imparare qualcosa.
Il metodo di lavoro di Claudio ha rifondato il senso
del direttore moderno: un musicista che spiega, chiede e soprattutto ascolta.
Musicista tra i musicisti. Avendo privilegiato la collegialità, Claudio ha
sempre preteso tra i leggii - come solisti o nell’opera – i collaboratori
migliori: cointerpreti a tutti gli effetti. Senza gelosie né paura del
confronto forte e problematico.
E ha sostenuto la contestualizzazione dell’esecuzione
musicale come l’incontro critico col pubblico, favorendo fin dalle prime scelte
non comode la fiducia in una più vasta ritualità culturale. Un impegno, tra
virgolette o maiuscolo, capace di illuminare la musica e farne sentire il peso
di arte totale e di parte integrante della storia del pensiero non solo
musicale dell’uomo.
Far musica per Claudio ha significato, e
significa, prima di tutto imparare a ascoltare. E l’ascolto è l’altro
atteggiamento rappresentato dalle immagini. Capirsi, non convincere e basta:
usare gli occhi e i gesti più che parole importanti, motivate e raziocinanti, per
provare e concertare. Claudio ascolta sempre: segue dal clavicembalo il filo
drammatico monteverdiano intessuto dalla voce di Anna Caterina (Antonacci), si
sistema in un angolo, seduto, per non disturbare i solisti del Sesto “Brandeburghese”, dall’ultimo
leggio dei violini sorveglia la prova dei ragazzi dell’Ecyo a Courchevel o dei
bambini venezuelani; segue il ragionamento di Andrei (Tarkovskij) o il pensiero
di Giorgio (Strehler), ruba musica dallo sguardo di Isabelle (Faust) e di Maria
João (Pires), scruta quella che guizza sotto le spesse lenti di Alfred
(Brendel) o che sottintende il profilo irsuto di Radu (Lupu). Per Claudio
ascoltare vuol dire anche ascoltarsi (“studiare a memoria è ancora oggi per me
un metodo di approfondimento”, ha detto più volte col pudore di chi sa di avere
il bisogno fisico di vivere sempre
con le proprie musiche) ma poi confrontarsi, afferrare le suggestioni segrete
degli amici musicisti, pronto anche a seguire l’espressione spontanea che
esplode nel viso di Luciano (Pavarotti) o raggia in quello di Mirella (Freni).
Sembra di avvertirlo, questo flusso di ‘ascolti’. Le
fotografie non smettono di parlare fra loro e di parlarci. Ci suggeriscono di
accogliere con gratitudine anche le prime testimonianze familiari, cercando
nello sguardo fiero degli amati nonni la scintilla che oggi incatena dal podio,
riconoscendo nei ritratti di gruppo infantili di casa un tono di atavica
serenità e profonda saggezza che Claudio non ha sperperato.
Chi ha qualche dubbio, può incamminarsi con fiducia in questo
antiretorico percorso di immagini-ricordo. Voci e musica sono appena sotto la
superficie di stampa. I cortocircuiti affettivi sono facili da tramutare in
cortocircuiti artistici: per un concerto, un’opera, un’esecuzione o una prova;
visti e restituiti dall’alto o dal basso, con l’occhio del pubblico, quello
indiscreto del dietro le quinte, dell’addetto di palcoscenico o d’orchestra. In
nostalgia senza rimpianto: perché se non c’eravamo, ora possiamo far finta di
esserci stati. In profonda simpatia umana. E affetto, tanto affetto. Come
quello che sfolgora nel suo abbraccio collettivo, a braccia aperte come ali (e
il pomello della bacchetta che ammicca dal polsino sinistro), firma toccante
dei suoi più emozionanti ritorni (o commiati): alla Scala come alla
Philharmonie. Di Claudio, del suo bisogno di amicizia e di calore da
restituire, è l’immagine più autentica.
(Milano, giugno 2013)