Ci voleva del coraggio, e tante altre (ottime) idee registiche
Ci
voleva del coraggio, e tante altre (ottime) idee registiche, per rovesciare la
prospettiva narrativa di un capolavoro come «Peter Grimes» di Britten,
in scena alla Scala. La nuova produzione è firmata per la parte musicale dalla
direttrice australiana Simone Young, per la prima volta nella buca scaligera, e
per quella scenica di Robert Carsen, al suo 13esimo spettacolo nel teatro
milanese. Nella gerarchia drammatica della miracolosa opera d'esordio (1942-47)
del compositore inglese, c'è un protagonista assoluto: il mare. Non tanto, e
soltanto, per l'ambientazione. La cruda vicenda è ispirata al poema di Georg Crabbe,
e ribadita con intenzionale realismo e correlazione tra luoghi e sentimenti, a
Aldeburgh. Una cittadina sulla costa orientale dell'Inghilterra perennemente battuta
dalle tempeste, scavata da maree e mareggiate furiose, intrisa di umori
salmastri e assediata alla melma. Putrida e viscida come i cattivi umori dei
suoi abitanti: pescatori dalle coscienze infangate e miserabili. Fin dal primo
dei suoi meravigliosi Interludi a sola orchestra, dove la luminosità di sbieco
ma elettrica riflessa dalla superficie dell’acqua dialoga con l’immensità
dell’orizzonte e gli spettrali richiami di gabbiani, la scrittura di Britten alimenta
una musica dove i timbri acidi si mescolano a malleabili ma spezzate ondate di
melodia. La partitura di «Peter Grimes» suona come il mare. La musica è il
mare, ribadisce Carsen: non c’è bisogno di farlo vedere. E così è.
La regia
mira al cuore del dramma di Grimes: emarginato dal borgo/società, forse anche
per colpe proprie. “Diverso” perché orgoglioso, violento, pedofilo a sua
insaputa, incapace (forse non lo vuole) a cercare il modo per integrarsi:
quindi chiuso e ‘sicuro’ solo nel suo spazio fatto di lavoro senza sosta, di
visionarietà poetiche, di paure e risentimenti, di sogni di riscatto che non
avvereranno mai. È il resto del mondo in guerra con lui oppure è Peter in
debito morale con i suoi concittadini? È responsabile della morte dei giovani
apprendisti-mozzi oppure no? Di certo, e comunque, vita e comportamenti
quotidiani sono sempre sotto processo. Di qui la visione spettacolare di
Carsen, coadiuvato dalla scena praticamente unica ma modulata da pochi oggetti
qualificativi dei diversi ambienti previsti dal libretto (sedie, panche, neon
sospesi, ceste e cordami da pescatori) di Gideon Davey e dai costumi da Quarto
Stato atlantico e proletario anni Settanta. Una sala di tribunale, un orologio
alla parete, lo stallo per l’imputato, il tavolino frontale per l’accusa. Le
tre pareti sono foderate fin a metà altezza di legno. Sopra corre per tutti i
tre lati una balaustra su cui si assesta il coro nel secondo quadro, ripetendo il
gesto ossessivo di squamare il pescato del giorno: è, con le luci che entrano
dalle porte, l’unica allusione fisica al ‘fuori’ dove c’è il mare e le barche.
Sulla parete bianca che la cinge vengono proiettate immagini moltiplicate di
primi piani Grimes e, durante la sua luttuosa e allucinata scena-monologo (agìta
dallo stallo giudiziario), le uniche immagini marine. Colori spenti, molto buio
quindi fuochi e torce elettriche. Claustrofobica e agorafobica allo stesso
tempo: stanza e prigione. La scatola-scena cambia prospettive ma sempre a
ribadire che i ‘buoni’ (anzitutto la bistrattata ma agognata Ellen e il saggio
Balstrode) sono sempre soli. Fanno stringere il cuore le inquadrature in cui il
palcoscenico si svuota e li lascia isolati da tutto. Inermi di fronte alla
comunità che non li accetta. Non si sforza di capirli. Colpisce la bravura del
regista nel muovere il coro, nell’animarlo di decine di figure diverse nei
gesti e nelle posture unite soltanto dalla rabbiosa ostilità contro Grimes. E
commuove scegliendo di evocare l’affondamento suicida del protagonista in mare
aperto, finalmente riconciliato col mondo, col ripristino della
scena-tribunale. L’inquietudine del richiamo (i processi ai diversi non finiscono
mai) è lenita da una sensazione di quiete che la ricomposizione del quadro
iniziale porta con sé.
La narrazione
forte della regia funziona anche perché dominata e sottolineata dall’interpretazione
musicale. La musica tagliente eppure così toccante, fragile quanto sostanziosa e
passionale nei colori e nell’attrazione per gli slanci melodrammatici ha nella
Young una guida di formidabile esperienza e profondità. Con lei, l’orchestra ha
suonato bene: molto concentrata e carica di intenzioni. Il suo gesto ha
definito con raro senso del teatro e altrettanta sensibilità alle dovizie
armoniche e strumentali segrete della partitura il palcoscenico sonoro ideale
per il canto e la recitazione dei protagonisti vocali. Meritati i grandi
applausi per il Grimes di Brandon Jovanovich, ammirevole nella dolorosa e
spietata naturalezza con cui mutava i toni espressivi, restituendone la
complessità. Toccante nella sua figura adolescenziale ma maturata nell’angosciosa
condivisione dell’animo di Peter, l’Ellen di Nicole Car. Affettuosamente
carismatico Ólafur Sigurdarson come Balstrode. Ma in prima fila c’era una serie
di cantanti-attori di notevole affiatamento e proprietà: da Peter Rose a
Natascha Petrinsky e Michael Colvin, al trio femminile (Margaret Plummer, Katrina
Galka e Tineke Van Ingelgem) e le altre più brevi ma non meno decisive
caratterizzazioni sceniche.