mercoledì 3 ottobre 2018
Zefiro Brandeburghesi
Non capita spesso di aspettare un disco. Nè succede sempre che l'attesa sia del tutto soddisfatta. Con i Concerti Brandeburghesi molto "italiani" - non solo per la composizione dei leggii delle "orchestre" in gioco - dell'Ensemble Zefiro la combinazione accade. Esecuzione e interprezione s'incontrano nel migliore dei modi. A ogni pagina si respira un'aria nuova. Originale ma motivata, oltre che "informata". Elettrizzante e affettuosa, non manierata né dimostrativa. Rispettosa dello stile ma sorprendente negli esiti strumentali, delle combinazioni dei timbri ("armonizzati" come mai), nelle scelte dei tempi effervescenti ma non barockari. Il gusto innato (e contagioso) di Alfredo Bernardini per fraseggi motivati e mai uguali, delinea un'articolazione del discorso musicale e strumentale che si ricrea a ogni tempo adeguandosi al calibro diverso dei solisti impegnati, della scrittura a più voci e agli estri cosmopoliti dei Concerti. E così l'ascolto è una felice ossessione.
lunedì 1 ottobre 2018
(Parma, Macbeth, 27 settembre 2018)
Il
Macbeth di Verdi, prima versione
1847, si ascolta di rado. Peccato: non vale meno della rifinita e matura
versione 1865. Proprio perché è più velleitario e procede a (geniali) tentoni. Tra
disomogeneità dei numeri, articolazione drammatica qua e là zoppa e
strumentazione che, cercando una lingua adatta al grottesco e fantastico creato
“da Shakespeare”, s’incaglia in effetti e gergalismi sonoro-descrittivi incisivi
ma rudimentali. In altre parole, la bomba fatta esplodere nel mondo appagato del
melodramma col Macbeth nasce con la
dotazione da “Piccolo chimico”. La vocalità solistica tiranneggia. Mette in
primo piano il baritono, qui eccellente; porta al precipitante finale
“donizettiano”; alterna pienezze (cabalette rampanti, e una stesura corale del
«Patria oppressa» da gran commozione postrisorgimentale) e formidabili intuizioni
declamatorie che poco vogliono avere a che fare con i vecchi recitativi. Anche
gli interpreti intelligenti le riducono più spesso a birignao a bocca stretta,
leziosi e ammiccanti, da salotto. Invece di mordere la parola senza paura
d’essere sgraziati pur d’essere “veri”; rendendola musica e anima, soffio
vitale e incubo, eccitazione e tremore insieme. Come Verdi aveva osato, infischiandosene
delle contrazioni concettuali del libretto, dei dubbi dei cantanti e delle
tremarelle dell’impresario.
A
dare ragione piena alla rara proposta messa a capitello della serata inaugurale
del festival Verdi, è mancata in parte la componente “critica”; cioè una sintesi
artistica persuasiva e rivelatrice degli ingredienti fragili ma fieri – da
scommessa teatrale e poetica - del primo Macbeth.
Il direttore Philippe Auguin s’è occupato dell’orchestra che ha suonato bene ma
ha lasciato a sé stesse le voci. Così il più dotato e bravo Luca Salsi s’è
perso in un «pleonasmo di intenzioni», avrebbe scritto Roland Barthes, che esaltano
il cantante ma scavano un solco interpretativo tra parola e musica, emozioni e
canto. Anna Pirozzi, non meno munita ma meno ammaestrata, sfiora solo l’anima
nera dell’anima vocale della Lady. Non bastano l’aria di Antonio Poli e la
magistrale lezione verdiana di Michele Pertusi. Mancando una “regia delle voci”,
la regia scenica di Daniele Abbado che libera idee in quantità un po’ eludendo
la sostanza drammaturgica più spiccia del primo Macbeth, è rimasta in riserva di determinazione narrativa. Lo spettacolo
azzera la temporalità delle azioni (le profezie “accadono” davanti agli occhi,
i pensieri sono subito gesti): cupo e affascinante. Nella festa-ridda, come nel
II atto, la mano inventiva di Carla Teti esalta invano costumi e maschere e l’ossessivo - non sempre esplicito nelle intenzioni - velario di pioggia (vera) è trasfigurato dalle luci di Angelo Linzalata in inquieto
turbinìo che tutto e tutti avvolge e sconvolge.
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