lunedì 1 ottobre 2018

(Parma, Macbeth, 27 settembre 2018)

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Il Macbeth di Verdi, prima versione 1847, si ascolta di rado. Peccato: non vale meno della rifinita e matura versione 1865. Proprio perché è più velleitario e procede a (geniali) tentoni. Tra disomogeneità dei numeri, articolazione drammatica qua e là zoppa e strumentazione che, cercando una lingua adatta al grottesco e fantastico creato “da Shakespeare”, s’incaglia in effetti e gergalismi sonoro-descrittivi incisivi ma rudimentali. In altre parole, la bomba fatta esplodere nel mondo appagato del melodramma col Macbeth nasce con la dotazione da “Piccolo chimico”. La vocalità solistica tiranneggia. Mette in primo piano il baritono, qui eccellente; porta al precipitante finale “donizettiano”; alterna pienezze (cabalette rampanti, e una stesura corale del «Patria oppressa» da gran commozione postrisorgimentale) e formidabili intuizioni declamatorie che poco vogliono avere a che fare con i vecchi recitativi. Anche gli interpreti intelligenti le riducono più spesso a birignao a bocca stretta, leziosi e ammiccanti, da salotto. Invece di mordere la parola senza paura d’essere sgraziati pur d’essere “veri”; rendendola musica e anima, soffio vitale e incubo, eccitazione e tremore insieme. Come Verdi aveva osato, infischiandosene delle contrazioni concettuali del libretto, dei dubbi dei cantanti e delle tremarelle dell’impresario.
A dare ragione piena alla rara proposta messa a capitello della serata inaugurale del festival Verdi, è mancata in parte la componente “critica”; cioè una sintesi artistica persuasiva e rivelatrice degli ingredienti fragili ma fieri – da scommessa teatrale e poetica - del primo Macbeth. Il direttore Philippe Auguin s’è occupato dell’orchestra che ha suonato bene ma ha lasciato a sé stesse le voci. Così il più dotato e bravo Luca Salsi s’è perso in un «pleonasmo di intenzioni», avrebbe scritto Roland Barthes, che esaltano il cantante ma scavano un solco interpretativo tra parola e musica, emozioni e canto. Anna Pirozzi, non meno munita ma meno ammaestrata, sfiora solo l’anima nera dell’anima vocale della Lady. Non bastano l’aria di Antonio Poli e la magistrale lezione verdiana di Michele Pertusi. Mancando una “regia delle voci”, la regia scenica di Daniele Abbado che libera idee in quantità un po’ eludendo la sostanza drammaturgica più spiccia del primo Macbeth, è rimasta in riserva di determinazione narrativa. Lo spettacolo azzera la temporalità delle azioni (le profezie “accadono” davanti agli occhi, i pensieri sono subito gesti): cupo e affascinante. Nella festa-ridda, come nel II atto, la mano inventiva di Carla Teti esalta invano costumi e maschere e l’ossessivo - non sempre esplicito nelle intenzioni - velario di pioggia (vera) è trasfigurato dalle luci di Angelo Linzalata in inquieto turbinìo che tutto e tutti avvolge e sconvolge.



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