martedì 24 ottobre 2023

 Ci voleva del coraggio, e tante altre (ottime) idee registiche




Ci voleva del coraggio, e tante altre (ottime) idee registiche, per rovesciare la prospettiva narrativa di un capolavoro come «Peter Grimes» di Britten, in scena alla Scala. La nuova produzione è firmata per la parte musicale dalla direttrice australiana Simone Young, per la prima volta nella buca scaligera, e per quella scenica di Robert Carsen, al suo 13esimo spettacolo nel teatro milanese. Nella gerarchia drammatica della miracolosa opera d'esordio (1942-47) del compositore inglese, c'è un protagonista assoluto: il mare. Non tanto, e soltanto, per l'ambientazione. La cruda vicenda è ispirata al poema di Georg Crabbe, e ribadita con intenzionale realismo e correlazione tra luoghi e sentimenti, a Aldeburgh. Una cittadina sulla costa orientale dell'Inghilterra perennemente battuta dalle tempeste, scavata da maree e mareggiate furiose, intrisa di umori salmastri e assediata alla melma. Putrida e viscida come i cattivi umori dei suoi abitanti: pescatori dalle coscienze infangate e miserabili. Fin dal primo dei suoi meravigliosi Interludi a sola orchestra, dove la luminosità di sbieco ma elettrica riflessa dalla superficie dell’acqua dialoga con l’immensità dell’orizzonte e gli spettrali richiami di gabbiani, la scrittura di Britten alimenta una musica dove i timbri acidi si mescolano a malleabili ma spezzate ondate di melodia. La partitura di «Peter Grimes» suona come il mare. La musica è il mare, ribadisce Carsen: non c’è bisogno di farlo vedere. E così è.

La regia mira al cuore del dramma di Grimes: emarginato dal borgo/società, forse anche per colpe proprie. “Diverso” perché orgoglioso, violento, pedofilo a sua insaputa, incapace (forse non lo vuole) a cercare il modo per integrarsi: quindi chiuso e ‘sicuro’ solo nel suo spazio fatto di lavoro senza sosta, di visionarietà poetiche, di paure e risentimenti, di sogni di riscatto che non avvereranno mai. È il resto del mondo in guerra con lui oppure è Peter in debito morale con i suoi concittadini? È responsabile della morte dei giovani apprendisti-mozzi oppure no? Di certo, e comunque, vita e comportamenti quotidiani sono sempre sotto processo. Di qui la visione spettacolare di Carsen, coadiuvato dalla scena praticamente unica ma modulata da pochi oggetti qualificativi dei diversi ambienti previsti dal libretto (sedie, panche, neon sospesi, ceste e cordami da pescatori) di Gideon Davey e dai costumi da Quarto Stato atlantico e proletario anni Settanta. Una sala di tribunale, un orologio alla parete, lo stallo per l’imputato, il tavolino frontale per l’accusa. Le tre pareti sono foderate fin a metà altezza di legno. Sopra corre per tutti i tre lati una balaustra su cui si assesta il coro nel secondo quadro, ripetendo il gesto ossessivo di squamare il pescato del giorno: è, con le luci che entrano dalle porte, l’unica allusione fisica al ‘fuori’ dove c’è il mare e le barche. Sulla parete bianca che la cinge vengono proiettate immagini moltiplicate di primi piani Grimes e, durante la sua luttuosa e allucinata scena-monologo (agìta dallo stallo giudiziario), le uniche immagini marine. Colori spenti, molto buio quindi fuochi e torce elettriche. Claustrofobica e agorafobica allo stesso tempo: stanza e prigione. La scatola-scena cambia prospettive ma sempre a ribadire che i ‘buoni’ (anzitutto la bistrattata ma agognata Ellen e il saggio Balstrode) sono sempre soli. Fanno stringere il cuore le inquadrature in cui il palcoscenico si svuota e li lascia isolati da tutto. Inermi di fronte alla comunità che non li accetta. Non si sforza di capirli. Colpisce la bravura del regista nel muovere il coro, nell’animarlo di decine di figure diverse nei gesti e nelle posture unite soltanto dalla rabbiosa ostilità contro Grimes. E commuove scegliendo di evocare l’affondamento suicida del protagonista in mare aperto, finalmente riconciliato col mondo, col ripristino della scena-tribunale. L’inquietudine del richiamo (i processi ai diversi non finiscono mai) è lenita da una sensazione di quiete che la ricomposizione del quadro iniziale porta con sé.

La narrazione forte della regia funziona anche perché dominata e sottolineata dall’interpretazione musicale. La musica tagliente eppure così toccante, fragile quanto sostanziosa e passionale nei colori e nell’attrazione per gli slanci melodrammatici ha nella Young una guida di formidabile esperienza e profondità. Con lei, l’orchestra ha suonato bene: molto concentrata e carica di intenzioni. Il suo gesto ha definito con raro senso del teatro e altrettanta sensibilità alle dovizie armoniche e strumentali segrete della partitura il palcoscenico sonoro ideale per il canto e la recitazione dei protagonisti vocali. Meritati i grandi applausi per il Grimes di Brandon Jovanovich, ammirevole nella dolorosa e spietata naturalezza con cui mutava i toni espressivi, restituendone la complessità. Toccante nella sua figura adolescenziale ma maturata nell’angosciosa condivisione dell’animo di Peter, l’Ellen di Nicole Car. Affettuosamente carismatico Ólafur Sigurdarson come Balstrode. Ma in prima fila c’era una serie di cantanti-attori di notevole affiatamento e proprietà: da Peter Rose a Natascha Petrinsky e Michael Colvin, al trio femminile (Margaret Plummer, Katrina Galka e Tineke Van Ingelgem) e le altre più brevi ma non meno decisive caratterizzazioni sceniche.


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